cinema

lunedì 24 marzo 2014

DYLAN THOMAS / JOHN HELIKER / JOHN CALE


DYLAN THOMAS, NOVEMBRE 1953
JOHN HELIKER, 1909 - 2000
JOHN CALE, LIVE BRUXELLES 1992

John Heliker, Tarquinia, 1947

Do not go gentle into the good night, recita il refrain di una celebre poesia di Dylan Thomas, musicata da John Cale. Parla della morte o meglio, del fine vita. Per Thomas le circostanze dell’entrata nella bella notte sono diventate un mito e non si è certi se siano state gentle or not.

È il 3 novembre del 1953. Dylan è a New York, al Chelsea Hotel e ha da poco compiuto trentanove anni ma non sta bene. Ha problemi di respirazione, beve molto, non riesce a dormire, assume barbiturici. In quei giorni a New York non si respira, una cappa di smog avvolge Manhattan e crea grossi problemi a chi soffre di asma. Dopo essere stato tutto il giorno a letto, la sera esce e inizia un tour alcolico in vari bar. Rientra al Chelsea dichiarando ad Elizabeth Reitell, con cui divideva la camera, di essersi scolato 18 whiskies di fila:  “I’ve had eighteen straight whiskies. I think it’s a record. I love you”.

Il 4 novembre Thomas sta male ma continua a bere. Riceve almeno tre volte in camera il dottor Milton Feltenstein che gli somministra steroidi e morfina. Dopo la mezzanotte Dylan è semiparalizzato. Elizabeth Reitell chiama l’ amico John Heliker , buon pittore, e insieme lo portano con un’ambulanza al St. Vincent’s Hospital. È in questi minuti che Dylan avrebbe pronunciato a Heliker le sue ultime parole prima di entrare in coma: “After thirty-nine years, this is all I’ve done”.

Viene avvisata la moglie Caitlin che prenderà un volo per New York. In ospedale pare che le prime parole da lei dette siano state “Non è ancora crepato quello stronzo?”, poi ubriaca e incontrollabile verrà portata in una clinica di Long Island per un rehab.


Dylan Thomas muore il 9 novembre.


Corinth, 1957

The Howard House, 1965

West Dover

Autoritratto, 1970



sabato 22 marzo 2014

DYLAN THOMAS

BALLAD OF THE LONG-LEGGED BAIT
BALLATA DELL'ESCA DALLE LUNGHE GAMBE


Dylan Thomas con la moglie Caitlin - 1937

Il critico William Tindall racconta un suo incontro con Dylan Thomas. Sono in un celebre bar-restaurant, West 23rd Street di New York. Il poeta dal fegato bruciato prova gusto ad apparire sconnesso. Il critico fa domande sul significato di alcune poesie, proprio la cosa che un poeta, per di più alticcio, figuriamoci quanta  voglia ha di stare ad ascoltare. A proposito di Ballad of long-legged bait, Dylan Thomas pronuncia, seccato e provocatore, la famosa frase masticando le parole: “Un giovane va a pesca di scopate e si ritrova all’amo la chiesa e il bel pratino verde. Che stronzata!”.

La sferzante battuta sintetizza il componimento poetico. Il viaggio per mare narrato nella ballata si configura, infatti, come percorso esperienziale; è la vita nel suo svolgersi che, per un poeta, coincide con l’evoluzione della propria produzione poetica.

Senza andare a scomodare l’Ulisse di Omero ( ma l’Ulisse di Joyce sì!), i due precedenti della ballata di Thomas sono l’Ancient Mariner di Coleridge e il Bateau ivre di Rimbaud. Ai quali si può aggiungere Moby Dick. Ma come sua abitudine Thomas scombina le carte e smazzando unisce ai riferimenti citati l’aura del profetismo biblico, dal Vecchio Testamento all’Apocalisse. A questa base letteraria si aggiungono il lirismo onirico-simbolista e il carico tutto carnale tipici della poetica del ‘giovane artista’ gallese.

Nella ballata l’incedere è narrativo con ripetuti cambiamenti del soggetto enunciante. All’inizio è la costa a dare l’ultimo sguardo al giovane eroe appena salpato dai capelli scomposti e dagli occhi blu balena (whale-blue eye è un’invenzione meravigliosa).

Il ritorno è invece visto con gli occhi del fisherman ed è la terra che si mostra con il suo orizzonte chiuso e i suoi simboli prosaici: in un anticlimax rassegnato vediamo il villaggio, la chiesa, la casa, il cuore in mano.
Tra la partenza e l’arrivo c’è la sterzata, lo scarto (swerve) che rende possibile l’esperienza di sensazioni visive, uditive, tattili; di accoppiamenti mitici, mistici, selvaggi. Il viaggio-vita-poesia è infrangere la scia (buck in the wake), nella cui schiuma l’esca dalle lunghe gambe si azzuffa  con un branco di amanti (tussle in a shoal of loves). E, tra sogno e realtà, appaiono donne nude color di luna dall’incedere provocante, rese più seducenti dalla vergogna (moon-white women naked / walking in wishes and lovely for shame).

La Ballad fu scritta tra il 1940 e il 1941 a Bishopton, in Galles. Dylan e la moglie Caitlin trascorrevano pomeriggi al pub. Spesso si univa a loro l’amico Vernon Watkins, che ha lasciato preziose testimonianze su come lavorava Thomas. Proprio di questa poesia Watkins dice “di averla vista crescere dai primi versi attraverso tutti gli stadi della composizione”. In una lettera di quel periodo Thomas scrive: “ I’ve been sitting down trying to write a poem about a man who fished with a woman for bait and caught a horrible collection”, secondo quanto scrive Gwen Watkins in Portait of a friend.


La ballata è citata nel testo della canzone Dolce Luna composta da Fabrizio De André e Francesco De Gregori. Tra i versi si segnalano
Cammina come un vecchio marinaio…
la sua ragazza esca dalle lunghe gambe
fa all'amore niente male…
la sua balena Dolce Luna
che lo aspetta in alto mare



Dylan con un amico e Vernon Watkins in Galles

domenica 16 marzo 2014

ITALO TONI / GRAZIELLA DE PALO

BEIRUT - 2 SETTEMBRE 1980





La DC al governo, uomini di punta Andreotti e Moro, molto attivi nelle relazioni internazionali. Negli anni ’70 l’Italia, a causa della sua posizione geografica, si ritrovava ad essere uno dei crocevia dei due più importanti affaires di politica estera: il conflitto freddo Est-Ovest e il conflitto armato arabo-israeliano. In quest’ultimo la linea seguita dall’Italia era quella filo-araba.

Democrazia Cristiana e Partito Comunista hanno sempre guardato con diffidenza a Israele. La sinistra collegava la nazione ebraica all’imperialismo americano mentre più pragmaticamente le volpi democristiane avevano molto più da guadagnare stabilendo canali ufficiali e non con gli arabi. C’era di mezzo il petrolio ma c’era anche il proposito di concordare con i palestinesi una pax duratura, il così detto Lodo Moro, che evitasse di coinvolgere l’Italia negli attacchi terroristici tipo Monaco ’72. Di fatto l’OLP aveva nell’Italia l’alleato più sicuro dell’Europa occidentale, potendo contare sia sulle forze governative che su quelle di opposizione, anche extraparlamentare.

Il 13 aprile 1975 dei palestinesi uccidono a Beirut il leader dei falangisti cristiani libanesi Pierre Gemayel. È l’inizio di una serie di vendette incrociate che scateneranno la guerra civile nel paese levantino che finirà soltanto nel 1991. Il Libano diventa teatro di scontri tra le numerose fazioni interne e che ben presto vedrà la partecipazione dei paesi vicini. Siria, Israele, Paesi del Golfo, Iran e le principali reti di intelligence del mondo.

A Beirut si incrociano petrodollari sauditi, finanzieri londinesi, gli interessi della ricca diaspora libanese, trafficanti di armi e droga. Come sempre in Medio Oriente, gli affari si legano alle divisioni etnico-religiose e politiche, nella cornice più ampia del bipolarismo e della rivalità tra sovietici e americani.

È in questo contesto che il 22 agosto del 1980 giungono a Damasco, destinazione Beirut, due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo. Lui esperto corrispondente dai luoghi caldi per Paese Sera, conoscitore del Libano con un non meglio precisato incarico presso il Ministero degli Interni; lei giovane ed entusiasta pubblicista che aveva sposato la causa palestinese. L’intenzione era quella di seguire la pista del traffico di armi e di droga sulla rotta Beirut-Damasco.

Le due capitali distano qualche ora di auto, la strada attraversa la regione della Beqaa, fertilissima valle coltivata a oppio e cannabis. Il confine Siria-Libano, allora come oggi, era il luogo giusto per reporter  a caccia di scoop. Come lo era il sud del Libano con i campi-profughi palestinesi.

Il 24 agosto i due italiani sono a Beirut e iniziano a muoversi cercando contatti con i vari gruppi militarizzati attivi nella città, in particolare nella parte ovest, quella controllata dai palestinesi. La mattina del 2 settembre 1980 hanno un appuntamento. Escono dall’hotel dove risiedono e salgono su un’auto. Da quel momento di Italo e Graziella non si avranno più notizie.

Come da copione si verificheranno depistaggi, interventi dei servizi segreti italiani e esteri, di massoni maroniti e perfino del generale del Sismi Santovito, legato a Licio Gelli. Con lo Stato italiano non certo pronto a collaborare e che anzi farà di tutto per chiudere la vicenda e avvolgerla in un silenzio tombale.


Ancora oggi la verità e la giustizia sono lontane e sempre più difficili dall’affiorare. Si possono soltanto fare ipotesi. Quella più verosimile è che Toni e De Palo siano finiti nelle mani degli estremisti del Fronte Popolare Liberazione Palestina, scambiati per spie israeliane o forse testimoni di qualche verità compromettente.  La causa palestinese non poteva essere screditata come non poteva essere messo in discussione il Lodo Moro da parte dello Stato italiano.  Da qui la probabile eliminazione dei due scomodi giornalisti.

Il Libano nel 1982, ai tempi dell'occupazione israeliana chiamata
'Operazione Pace in Galilea'. Cartina da Frigidaire, n. 32-33 estate 1983

sabato 15 marzo 2014

LEBANON

SAMUEL MAOZ - 2009
LEONE D'ORO MIGLIOR FILM 66 MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA






Una didascalia ad inizio film ci informa che è il 6 giugno 1982, primo giorno della Guerra del Libano.
Siamo all’interno di un carro armato israeliano e lì resteremo per tutta la durata del film assieme ai quattro giovani e inesperti soldati dell’equipaggio. Da questa postazione privilegiata assisteremo ad una guerra come mai si era vista al cinema.  

Sudore, lacrime, urina, fumi di scarico, sangue, acqua di condensa che cola, questo è ciò che riempie il vano di combattimento del carro. Pochi metri cubici, il contatto con il mondo esterno avviene grazie al periscopio, a confuse comunicazioni radio e a qualche visita dell’ufficiale che comanda un plotone in supporto al blindato che con altri ‘intrusi’ entrano nell’utero-armato che accoglie anche lo spettatore. Il quale, come i quattro soldati, si sente intrappolato nel carro e spera che da un momento all’altro la camera esca fuori dal portello della torretta. La camera invece non si muove, rimane addosso ai soldati e alle loro crisi nervose.

E come i quattro soldati anche noi vediamo la guerra attraverso i loro occhi e attraverso il prolungamento della loro vista rappresentato dal periscopio che con rumore metallico si sposta a scatti e inquadra quello che dovrebbe essere la realtà.

Si crea in tal modo uno schema di questo tipo: spettatore   interno del carro(realtà dei soldati in guerra) → osservazione della realtà esterna (manifestazione dei fenomeni bellici) → reazioni che i fenomeni bellici innescano nei soldati all’interno del carro → ritorno emozionale dai soldati allo spettatore.
Grazie a questo riuscito sistema di relazioni il film trasmette il senso di claustrofobica angoscia che rende partecipe lo spettatore il quale anch’egli vuole uscire, tornare a casa, quasi fosse fisicamente dentro al carro armato.


Questa location è l’elemento più interessante del film. Il resto è più o meno la solita retorica antimilitarista condita da immancabile realismo al sangue, vittime innocenti, soldati fragili in balia degli eventi. Anche chi dovrebbe dare ordini e informazioni non è in grado di farlo e il carro armato diventa un bateau ivre alla deriva in un campo di girasoli.


giovedì 13 marzo 2014

LIBANO

PRIMAVERA DI GUERRA?


 19 Febbraio 2014. Bomba presso centro culturale iraniano a Beirut. Reuters


La guerra civile in Siria sta trascinando nel caos anche il vicino Libano. Come altre volte nella storia recente, instabilità esterne provocano ripercussioni nel piccolo paese di monte e di mare che, nonostante tutto, trova sempre il modo per rilanciarsi. Questo grazie ad una tradizione mercantile e borghese che negli altri paesi arabi troppo spesso è stata sopraffatta da invadenti ideologie, laiche o religiose che fossero. 

All’interno del mondo arabo il Libano è infatti per molti aspetti un’eccezione. A volte considerata come il fiore all’occhiello, altre blasfemo esempio da condannare. E comunque i libanesi hanno un innegabile istinto per il business. Possiamo trovare uomini d’affari di Beirut o di Tripoli tra i finanziatori di imprese impossibili dall’America Latina all’Africa Subsahariana per citare luoghi diversi dai soliti financial hubs di Londra o Singapore. Tanto per fare qualche esempio, l’uomo più ricco del mondo, secondo Forbes, è il messicano di origine libanese Carlos Slim. Oppure i boss di Swatch, Chiquita, Nissan e Renault. Ma che paese è il Libano e perché dall’estate del 2013 sempre più attentati sconvolgono la costa dei cedri?

Intanto va chiarito che il Libano è un paese di lingua araba ma dal punto di vista etnico-religioso le cose sono un po’ più complicate tanto complicate che ci si chiede come possa esistere un’identità nazionale in una tale nazione-mosaico. Ci si chiede anche quanta differenza passi tra un druso siriano di Sweida e un druso libanese della Beqaa o, per contrasto, quanto simili siano uno sciita di Tiro e un maronita di Batroun. Ma questi sono interrogativi che solo un “esterno” può porsi.

Comunque l’anarchia siriana sta producendo un milione di profughi in libano, paese che non raggiunge i cinque milioni di abitanti tra i quali vivono ancora oggi centinaia di migliaia di palestinesi rifugiati dal post-1948.

Ed ecco che, dopo la guerra civile, l’occupazione siriana, gli interventi israeliani, gli attentati devastanti, proprio quando si sperava che i libanesi potessero tornare a godersi i caffè del lungomare e a riallacciare i loro contatti commerciali internazionali torna l’incubo del caos prezzolato. Si colpisce il quartiere sciita di Beirut, Hezbollah fa fuori personalità sunnite. Esplodono autobombe davanti all’ambasciata di Teheran, gli sciiti rispondono con gli šuhadā suicidi. E la frontiera tra Beirut e Damasco viene continuamente attraversata nei due sensi da profughi, qaedisti, consiglieri iraniani, falangisti assoldati dal Mossad. 

Perché la storica rivalità religiosa sta tornando a livelli di massimo allerta. Gli sciiti libanesi appoggiano il dittatore siriano Assad che appartiene alla setta sciita degli alawiti, mentre i ribelli siriani sono in prevalenza sunniti e ricevono aiuti dai sunniti libanesi. Dalla scorsa estate sono tornati gli attentati a Beirut, dietro ai quali, oltre alle divisioni interne, si stanno intrecciando fili che portano lontano, oltre confine: Iran, Siria, alcuni Stati del Golfo.


Da circa  un mese si è insediato un nuovo governo, a prevalenza sunnita ma con appoggio di cristiani e sciiti, il cui compito principale è quello di garantire la sicurezza nazionale, con un occhio oltre il confine est, verso Damasco.

Carta elaborata da Michael Mehrdad Izady, Columbia University