cinema

domenica 27 febbraio 2011

MIKE LEIGH

ANOTHER YEAR
MIKE LEIGH - 2010























Mike Leigh va a lezione da Eric Rohmer e i racconti delle quattro stagioni del regista francese sono concentrati in un unico film, dalla primavera all’inverno successivo.



In effetti il film inglese dell’inglese Leigh è molto francese, tutto basato su conversazioni, spesso davanti ad un calice di vino, e fisicità dei caratteri e quindi degli interpreti.


Ovviamente gli attori sono tutti bravissimi e gli sguardi, le battute, i sorrisi e le lacrime sono naturali e credibili. Quello che scorre sullo schermo è un anno, un altro anno, della nostra vita. Accadono cose e non accade nulla, proprio come nella vita delle persone ordinarie.


Gerri e Tom sono una affiatata coppia di maturi professionisti, psicologa lei, geologo lui. La loro intesa è totale, fatta di quotidiana condivisione e complicità. A tavola fanno il bilancio delle proprie giornate lavorative con reciproca partecipazione, ospitano vecchi amici, si preoccupano per il figlio non ancora sentimentalmente sistemato. Sono comprensivi e affettuosi con quelli che ruotano attorno a loro. Hanno la passione per l’orto, che è uno dei leit motiv del film, dal trapianto al raccolto seguendo i ritmi delle stagioni. L’altro importante motivo che attraversa questo anno vissuto normalmente è la presenza costante della collega di Gerri, una insopportabile e bravissima Lesley Manville. Ma bravi sono tutti, si capisce, a cominciare da una strepitosa Ruth Sheen nel ruolo di Gerri.


Mike Leigh sceglie una regia asciutta, si concentra proprio sugli attori, stringe il campo sulle facce, dietro alle quali la presenza del regista è costantemente percepita: si avverte, oltre la apparente naturalezza, uno scrupoloso lavoro di messa a punto per ogni dialogo, gesto, inquadratura e ambiente scenico (forse un po’ troppo forte il contrasto ambientale tra le case dei due fratelli).


Tutto perfetto: recitazione, regia, script, componenti d’arredo, fotografia che varia al variare del tempo atmosferico a costruire un vero brano di vita ‘reale’. Ma che noia!

giovedì 24 febbraio 2011

ALEKSANDAR HEMON

THE QUESTION OF BRUNO
ALEKSANDAR HEMON - 2000

Sono stati scomodati certi nomi da far rabbrividire: Conrad, Nabokov, Kundera, con reminiscenze proustiane e joyciane. Insomma, a parte Kundera, decisamente ad un livello inferiore, siamo tra i gioghi eccelsi del Parnaso. Libro dell’anno quando uscì negli States nel 2000 secondo le più autorevoli testate, dal New Yortk Times al Los Angeles Times al New Yorker ad Esquire, Hamon non poteva che suscitare curiosità. The Question of Bruno è composto da otto racconti che assomigliano ad un blogger-profile con ricordi d’infanzia, foto, personaggi reali ed eroi immaginati. Come in molte delle espressioni letterarie più riuscite tutto si mescola e si confonde. È difficile stabilire dove finisce il reale ed iniziano sogno e fantasticheria quando un pulviscolo dorato avvolge gli avvenimenti raccontati. E i fatti sono raccontati con una lingua diretta, sintatticamente semplice, secondo i canoni di chi usa una lingua non propria. Come nel migliore Nabokov c’è in The Question Of Bruno la volontà di recuperare un mondo definitivamente scomparso attraverso uno strumento che di quel mondo non faceva parte. Nel senso che parlare dei propri paradisi dell’infanzia senza utilizzare lo strumento principe che veicolò le sensazioni del passato, la lingua madre, è una scelta forte, programmatica, che comporta uno sforzo supplementare di riflessione. È vero anche che l’uso dell’inglese ha permesso allo scrittore bosniaco-americano una visibilità immediata, ma è anche vero che oltre al mezzo conta anche il contenuto e a proposito di contenuti l’opera d’esordio di Hemon è veramente esplosiva.

Hemon è proprio bravo, la brevità non toglie nulla alla profondità e alla resa cromatica del racconto. Quadri di vita e letteratura, esistenze parallele, immagini che riaffiorano da una storia all’altra e soprattutto colori, sapori, suoni. Insomma, tutti i sensi vengono coinvolti nella prosa di questa ‘leggera’ raccolta di racconti. Ed è la leggerezza, quella di cui parlava Calvino, a rappresentare meglio i momenti più riusciti del libro, che contiene anche qualche ‘pesantezza’, ma parlare di Sarajevo e della Ex-Yugoslavia, di comunismo e di cecchini che sparano dai tetti è in sé una pesantezza. Ed è questa un’altra sfida vinta, narrare il pesante con levità .


Tra i molti momenti felici va citata in particolare la descrizione, in soggettiva, di una perdita di coscienza. Siamo nel quinto racconto, nel pieno di una grande festa familiare quando il piccolo testimone degli eventi ha un mancamento in cui le facoltà sensitive perdono coerenza ma sono al tempo stesso più percettive. Gira tutto, sembra di essere dentro una lavatrice, per dirla con il narratore e parte una pagina magistrale, da leggere e rileggere.


Da ricordare anche il picaresco Blind Jozef Pronek, il racconto più lungo della raccolta. Il giovane bosniaco Pronek arriva negli Stati Uniti mentre nella sua patria lontana ma sempre presente, infuria la guerra. Inizia un viaggio stralunato da una città all’altra, dove si incontrano i più assurdi personaggi e noi vediamo l’America attraverso lo sguardo di questo europeo, tra un Holden e un Borat, che scivola imbranato sulle cose e le persone che lo circondano, illuminandole con i suoi pensieri apparentemente ingenui ma in realtà profondi.
Si giunge velocemente alla fine, felici per la lettura di un libro vivo, fresco e ben scritto.

domenica 20 febbraio 2011

RADIOHEAD

THE KING OF LIMBS
RADIOHEAD - 2011



Signore e signori, ecco a voi The best band around. Esce a sorpresa il nuovo Radiohead. Era l’ottobre del 2007 quando il gruppo di Oxford spiazzò tutti facendo uscire, direttamente in rete, senza un prezzo fisso né una casa discografica, il bellissimo In Rainbow. Dopo oltre tre anni di ‘how to disappear completely’ tornano con The king of limbs per il diletto di milioni di fan. Perché i RH stanno sempre più diventando una fan-band. Per un outsider è infatti difficile entrare nell’universo sonoro dell’ultima fase della produzione di Yorke e compagni, anzi per i cultori degli esordi la discografia finisce con OK Computer. Invece è proprio il post-OK che ha fatto dei RH qualcosa d’altro e di più grande rispetto ad una buona alternative rock band.



The king of limbs s’inserisce nella scia segnata da In Rainbow, risultando complessivamente meno umano e più ostico. Con questo disco si ripete la scelta di un John Lydon che si poneva con le spalle al pubblico che reagiva con la rabbia distruttiva dei tempi. Anche i RH si chiudono nel loro guscio in un atteggiamento quasi provocatorio e concedono pochissimo all’ascoltatore. Sta a lui impegnarsi e, se è in grado di farlo, cogliere le gemme purissime sparse tra i solchi.


Bloom è un accumulo progressivo di segni sonori: parte la frase di piano che sempre più veloce diventa un loop sul quale entrano bip elettronici e in successione, la batteria, le tastiere, le cinque note di basso, e la voce. Tutto si ripete quasi serialmente. Non ha più senso parlare di canzone, siamo di fronte al procedimento compositivo di certa musica contemporanea, tipo Glass o Steve Reich, impostato su una base che è quella di una rock band. Il modulo torna, accentuando ulteriormente l’ostinato di batteria e chitarra anche nella successiva Morning Mr Magpie, dove Yorke enuncia, con un canto sempre più dilatato: Signor gazza ladra/E ora hai rubato tutta la magia/Hai preso la mia melodia.


Chitarre in evidenza in Little by little, con pausa centrale per evidenziare il cantato e ripresa conclusiva con la stratificazione strumentale. Si giunge a Feral, brano caratterizzato dalla drum machine e dalla voce di Thom che emette rumori che emergono da spazi profondi. Si chiude la prima parte del disco. È una musica che si propaga da un antro, dal fondo di un oceano fluido in cui i musicisti si fondono in un liquido denso che si appiccica addosso ed entra subito in circolo. L’oscuro magma fa una buona impressione. Andiamo avanti. È l’ora del ‘singolo’, Lotus flower, uscito in video, il falsetto etereo si arrampica su campate di percussioni elettroniche per la più tradizionale delle otto tracce. Piano, qualche effetto, voce: così parte Codex, una linea melodica essenziale a costruire un’atmosfera sospesa e fortemente emozionante, va dritta al cuore, colpisce e subito la chitarra, che svolge la funzione che in Codex aveva il piano, introduce Give up the ghost. Le ultime tracce del disco sono pura magia e si giunge all’ultimo pezzo dove torna in evidenza il ritmo, segnato dalle percussioni e da un basso sognante su cui crescono volute chitarristiche psichedeliche e Thom canta If you think this is over/You’re wrong/Wake me up.


Anche questa volta i Radiohead hanno fatto centro.



venerdì 18 febbraio 2011

SHLOMO SAND

L’INVENZIONE DEL POPOLO EBRAICO

SHLOMO SAND – 2010



Questo libro importante si chiude con una serie di domande e, come dice l’autore, più che dare risposte e rassicurare il lettore con certezze, le 500 pagine del saggio lasciano con molto amaro in bocca e con una serie di interrogativi irrisolti.


Shlomo Sand è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Tel Aviv e da quando il libro è uscito in ebraico nel 2008, si è trovato, senz’altro consapevolmente, visto il tema affrontato, al centro di un acceso dibattito che ha contribuito a farlo restare per mesi ai vertici delle classifiche di vendita. L’invenzione del popolo ebraico è stato poi tradotto in inglese e la sua uscita negli USA ha amplificato il dibattito tanto che il sito a lui dedicato dal New York Times ha conosciuto un tale successo da renderlo per un lungo periodo il forum più postato del quotidiano.


Cosa dice di tanto sconvolgente Sand da far infuriare gli ebrei (particolarmente feroci le critiche mosse dall’Union des Patrons Juifs de France)? Semplicemente raccoglie una serie di tesi sviluppate in oltre un secolo di saggistica prevalentemente sionista e tira le somme. Due più due fa quattro. E la somma in questo caso è:


- non esiste un popolo ebraico;


- l’esilio dopo la distruzione del Tempio nel Primo secolo dopo Cristo non è attestato storicamente ed è verosimile che non sia proprio avvenuto. Nessuna cacciata degli ebrei dalla Terra Promessa, quindi;


- non c’è un continuum storico tra gli ebrei della Bibbia e gli ebrei odierni, come invece è sempre stato sostenuto;


- non c’è traccia sicura di omogeneità biologica tra coloro che si definiscono ebrei nonostante gli sforzi compiuti dai genetisti israeliani per dimostrare il contrario;


- la maggior parte degli ebrei dell’Europa orientale, il grosso degli ebrei oggi nel mondo, trae origine dai cazari, popolazione originaria delle steppe dell’Asia centrale il cui re si convertì all’ebraismo intorno al VII secolo dell’era volgare;


- lo Stato di Israele non è una democrazia ma un’etnocrazia ebraica con tratti distintivi liberali.


A queste tesi non nuove, Sand dà veste unitaria e puntualmente documentata, così da farle detonare, mettendo di suo l’affermazione che la base etnica dello Stato ebraico e tutta l’ideologia identitaria ad esso connessa, giustifica il colonialismo israeliano e il suo segregazionismo nei confronti dei cittadini israeliani che ebrei non sono, ossia circa un quarto della popolazione.
Il saggio è appassionante, si legge come un romanzo e come tutti i libri riusciti stimola e fa riflettere.

martedì 15 febbraio 2011

IÑÁRRITU / ARRIAGA

TRILOGIA DELLA MORTE (E DELL’AMORE)
IL PULP - MÉLO AL CHILI 2000 - 2003 - 2006



Si ricordano grandi coppie nella storia del cinema, da Ferreri-Aczona a Fellini-Flaiano a Kieslowski-Piesiewicz, per restare a quelle che considero di valore assoluto. Gli anni Zero hanno visto l’affermazione internazionale della coppia messicana Iñárritu-Arriaga con i tre titoli che dal 2000 al 2006 compongono la così detta Death Trilogy. I tre film sono ‘Rubrik-movies’, film nei quali la successione logico-cronologica dei fatti viene scomposta e ricomposta in virtuosismi che se non raggiungono l’inguardabilità di un film come Memento di Nolan, non hanno nemmeno l’ironia di Tarantino e ancor meno il rigore mai pedante/pesante di quel capolavoro Rubrik che è The Killing, per fare i primi esempi che vengono in mente.



La scomposizione dell’ordine narrativo sembra che sia il tratto irrinunciabile per raccontare storie ‘impegnate’, ‘d’autore’. Ma se ci si lega troppo alla regola si rischia di restarne prigionieri e quella che appare come la cifra stilistica finisce per diventare manierismo.


E proprio questo è capitato ai due autori messicani. Partono con Amore perros, in cui viene applicata alla lettera la lezione di Pulp Fiction nella costruzione della sceneggiatura. I tre episodi sono girati bene ma il film manca di coesione, con alcune situazioni e certi personaggi fuori fuoco. Completamente sbagliato il personaggio del guerrigliero-barbone, melensa la storia extraconiugale alto borghese, si salva l’episodio ‘basso’, con il rapporto fra cognati credibile, i ruoli pienamente caratterizzati e girato con mestiere. Per Iñárritu ed Arriaga si aprono le porte di Hollywood.


Il budget si fa consistente e arrivano le star. Del 2003 è 21 grammi, e sorgono i problemi. Il pulp si fa melodramma, il regista non controlla Penn che strafà e si porta a casa la coppa Volpi. È un cinema barocco quello di 21 grammi, dove si procede per accumulo e il risultato è un eccesso di tutto: morte, amore, lacrime, ego così da accontentare tutti.


I due continuano a seguire gli stessi moduli ma dilatando lo spazio. Dai pochi quartieri della stessa città di Amore perros al mondo di Babel: Messico, USA, Marocco, Giappone. I tempi restano eccessivi, due ore e venti, e le storie seguite dal regista nella babele linguistica non portano a nulla. Iñárritu è a suo agio nelle scene messicane del matrimonio anche se i guai al posto di blocco sono talmente prevedibili da inficiare la riuscita dell’episodio. Interessanti le ‘soggettive uditive’ che hanno per protagonista la inquieta teen-ager giapponese. Un po’ poco per gridare al capolavoro.

domenica 13 febbraio 2011

ATLAS SHRUGGED

ANTEPRIMA TRAILER
ATLAS SHRUGGED - THE MOVIE - 2011



La trasposizione del cult novel di Ayn Rand è una realtà, a dicembre è stato presentato all’Hudson Theatre di Times Square a New York, il preview di 6 minuti. Presenti i produttori del film e i vertici della Atlas Society, il centro culturale che promuove le dottrine oggettiviste. 100 dollari il biglietto semplice, 500 per il ricevimento post-presentazione. Gran folla, con molti rappresentanti dei Tea Parties fuori del teatro con i soliti cartelli con scritto I’m John Galt.
Questa la cronaca. Alcune considerazioni, tra il dubbio e la perplessità.
Il film è la parte 1 di una trilogia. Ok, il romanzo è lungo ed è diviso in tre parti, però la diluizione triennale suona un po’ scoraggiante. I produttori hanno stretto i cordoni della borsa, scendendo a 15 milioni di dollari di budget. Il regista è praticamente alle prime armi come filmmaker e anche il cast è deludente. La inizialmente prevista Jolie avrebbe fatto lievitare i costi.
Detto questo, l’operazione sarà, almeno negli USA, un grosso successo commerciale, visto il seguito che il romanzo continua ad avere dal 1957. Milioni di fans, oggi rinsaldati dai recenti successi politici nelle elezioni di Mid-term dello scorso novembre garantiranno incassi sicuri, ben superiori ai modesti investimenti. Senza contare che attualmente la serie TV di maggior successo negli States è Med Men, e nello studio del protagonista campeggia, spesso inquadrato e anche oggetto di ripetute battute, proprio il romanzone della Rand.
E, per dirla tutta, il trailer è poco avvincente, ma questo vorrebbe dire poco. In rete invece se ne parla benissimo. I fortunati che hanno sborsato i bigliettoni assicurano che i sei minuti di aperitivo sono eccellenti. C’è chi parla delle migliori scene ‘ferroviarie’ mai viste da anni: “there haven’t been shots of railroads in American movies like this in a long time”, per citare una dichiarazione. Altri fanno riferimento ad Harry Potter. Bah, tutto questo non fa che aumentare i dubbi.

venerdì 11 febbraio 2011

SCOTT-HERON / THE XX

WE'RE NEW HERE
GIL SCOTT-HERON / JAMIE XX - 2011



Uno degli album più interessanti del 2010; il leader di una delle band emergenti della scena londinese. Gil Scott-Heron incontra chissà secondo quali traiettorie Jamie Smith di The xx e insieme decidono di far uscire We’re new here.



In pratica Jamie technicizza I’n new here rendendolo adatto per il dancefloor. La voce vissuta di Gil condita con i ghiribizzi elettronici del kid. Sembra che per il gruppo più hot inglese siano in atto marette post sbornia da successo. Aspettando ulteriori sviluppi e quello che dovrebbe/potrebbe essere una possibile bomba dopo il gradevole (nulla di più) album d’esordio, accontentiamoci di questa collaborazione veramente insolita.


Su you tube circolano due video-anticipazione, uno, I’ll take care of U, convince. New York is killing me invece è un brano inutile. Nel primo la voce, magica, è in evidenza e quindi dà personalità al pezzo, con l’apporto di Jamie che resta al servizio del cantato. Nel secondo, il raffronto con l’essenzialità abrasiva e penetrante della versione di Gil è improponibile e l’ intervento di Jamie Smith è decisamente banalizzante.


Molta curiosità, comunque, per sentire cosa verrà fuori dai due brani migliori di I’m new here, la title trak e Me and the devil. Se fa testo l’anteprima, due canzoni così belle potrebbero rivelarsi una delusione. En attendant il 21 febbraio.

martedì 8 febbraio 2011

CRISTINA DONA'

TORNO A CASA A PIEDI

CRISTINA DONA’ – 2011


La EMI ci crede. La produzione è suntuosa, anche troppo. Cristina è in grande forma, il disco è ispirato e ricco di buoni spunti. Oggi Donà è la voce di spicco del panorama musicale nazionale. Ha un pedigree alternativo che le dà un’aura di rispetto a prescindere, anche se finora capolavori non è che ne abbia prodotti e il tanto celebrato La quinta stagione era, a dirla sinceramente, un disco poco riuscito.



Ha una bella voce sincera, pulita e trasparente. Scrive testi sufficientemente poetici e non banali. Ora che anche i mezzi sono all’altezza Cristina dovrebbe essere pronta per fare il salto. E finalmente ci siamo. Torno a casa a piedi è un bel disco. Decisamente sopra alla media della scena italiana. Un disco solido, fatto di canzoni ben strutturate, con l’orchestra a disposizione della direttrice, vedi il video di Miracoli, la fanfara gioiosa del primo singolo, che trova riferimenti nel film di Lynch Una storia vera.


Ma ci sono altri episodi importanti, primo fra tutti la bellissima Più forte del fuoco, vagamente vintage anni Sessanta, per esempio nel momento in cui canta ”E sei tu il suo riflesso”, con il fischiato e certi passaggi melodici semplici ma efficaci ed un testo che ritrova la perfezione di Goccia: “C’è quella frase che dice/chi ha già provato le ortiche/riconosce la seta “.


Sullo stesso alto livello la più intimistica canzone che dà il titolo al disco. Qui viene narrata l’esperienza, in prima persona, di un rapporto in crisi, in modo realistico e naturale, con begli squarci di vita quotidiana: un malinconico incipit pianistico, un cantato dapprima da recitativo melodico e poi il cambio, con la voce che sale ma resta morbida ed avvolta dal crescendo musicale. Di nuovo una pausa e poi lo sdoppiamento vocale e la ripetizione del ritornello: “ Mi han detto che non c’era più posto/ sulla nave per Creta a fine marzo/ comunque ho deciso rimango/ anche se tu sei stanco/ cosa credi sono io/ che torno a casa a piedi”, breve coda di piano a chiudere collegandosi all’inizio. Brava, grande canzone.


Anche le altre tracce, non toccando i vertici delle due citate, restano di buon livello, ognuna ben connotata da evitare noia e ripetizioni. Un album vario, di giusta lunghezza (una quarantina di minuti per 10 titoli), tenuto coeso dalla voce e dalla personalità di Cristina, qui, a oltre quarant’anni, giunta veramente alla piena maturità espressiva.

domenica 6 febbraio 2011

CLAUDE CHABROL / PAUL VALÉRY

BELLAMY
CLAUDE CHABROL – 2009

Il cinema di Chabrol trasuda passione per il racconto, giorni di letture, serate a discutere di letteratura, di come rappresentare l’uomo, i suoi pensieri, le sue relazioni con gli altri. Nel cinema di Chabrol, come in molto cinema francese, da Godard a Truffaut, è palpabile l’amore per il testo scritto, per la letteratura. Con Bellamy Chabrol porta sullo schermo suggestioni letterarie, rimandi ad una serie di autori, e lo fa servendosi di una delle più tipiche espressioni della cinematografia francese, il poliziesco o polar per dirla alla cinéphile.


Ed ecco che Bellamy si presenta subito come un omaggio a Georges Simenon. Il commissario Paul Bellamy è Maigret. Depardieu fa rivivere il grande Gino Cervi, arricchendo il personaggio di una fragilità umanissima e commovente. Oltre a Simenon c’è un altro Georges, Brassens, la cui presenza aleggia per tutto il film e si oggetti vizza nel coup de théâtre che dipanerà il viluppo narrativo verso successivi scenari extra-filmici che non ci riguardano più. O meglio, che riguardano solo noi, non più il regista e l’opera, riguardano noi, la nostra immaginazione e quanto la visione è capace di sollecitarci ad inventare ulteriori accadimenti.


Tornando entro la cornice chiusa del film, la situazione rimanda ad Anatomia di un omicidio di Otto Preminger. L’impressione – la certezza – che Bellamy ha avuto cogliendo, nel momento della resa dei conti, l’espressione sulla faccia di colui che è il perno della fabula, mette tutto in discussione lasciando il ‘detective’ e noi spettatori nel dubbio. E senz’altro Chabrol ha girato un film sul dubbio, dove c’è una rigorosa simmetricità esteriore tra l’inizio e la fine ma il cerchio non si chiude e resta l’ambiguità del reale, in cui ciò che accade e che il regista sceglie di farci vedere non ha mai un significato univoco e nasconde verità diverse.


Si parlava della letterarietà del cinema di Chabrol e con Bellamy infatti il regista ricorda anche due grandi poeti. Uno, Auden, citato espressamente con un verso che suona come una dichiarazione di poetica, la chiave di lettura del film, saggiamente posta prima dei titoli di coda. L’altro è Paul Valéry, sepolto a Sète e autore del Cimitero marino. E proprio il cimitero marino di Sète ha un ruolo centrale nel film.


PAUL VALÉRY


Fermé, sacré, plein d’un feu sans matière,
Fragment terrestre offert à la lumière,
Ce lieu me plait, dominé de flambeaux,
Composé d’or, de pierre et d’arbres sombres,
Ou tant de marbre est tremblant sur tant d’ombres;
La mer fidèle y dort sur mes tombeaux!


Racchiuso, consacrato, colmo di un fuoco immateriale,
frammento di terra offerto alla luce,
mi piace questo luogo, dominato da torce,
che lo fanno d’oro, di pietra e di alberi cupi,
dove il marmo è così tremolante contro tanto d’ombre;
il mare fedele dorme sulle mie tombe!


Da Le cimetière marin, 1920. Traduzione di eustaki


giovedì 3 febbraio 2011

LA RIVOLUZIONE SECONDO ŽIŽEK

SLAVOJ ŽIŽEK
THE GUARDIAN - 1 FEBBRAIO 2011


Le tesi proposte da Slavoj Žižek in un intervento sul Guardian sono, come è tipico del filosofo sloveno, un punto di vista eccentrico per cercare di riflettere e, se possibile, di capire qualcosa su quanto sta accadendo nel mondo islamico, in particolare arabo.



Parlando della paura dei liberal dei Paesi occidentali e dei loro leader politici che la democrazia nel mondo islamico comporti una automatica conquista del potere da parte degli islamisti, Žižek afferma che “the rise of radical Islamism was always the other side of the disappearance of the secular left in Muslim countries”.


Per supportare questa tesi, e cioè che l’indebolimento della sinistra laica ha favorito l’ascesa dell’islamismo, Žižek porta l’esempio dell’Afghanistan. Egli dice che quel Paese aveva vissuto un’esperienza comunista autonoma che lo aveva salvaguardato dal fondamentalismo e che la caduta di quel regime spianò la strada ai Talebani. Žižek legge gli odierni eventi tunisini ed egiziani secondo questa chiave di lettura. Ma va oltre. Egli asserisce che se le autocrazie di quei Paesi resteranno al potere, magari con qualche “liberal cosmetic surgery”, per citare la sua espressione, ciò porterà ad un rafforzamento della componente integralista. Ed ecco il consiglio del filosofo:
“in order for the key liberal legacy to survive, liberals need the fraternal help of the radical left”.
I liberali devono unirsi alle forze di sinistra.


Proprio quello che invece, secondo Žižek, l’Occidente non sembra voler comprendere. Quando gli appelli che provengono dai leader delle democrazie occidentali parlano di “stable change” o di “peaceful transition”, ciò vuol dire, nel caso dell’Egitto, un compromesso con le attuali forze al potere attraverso un ‘rimpasto’ di facciata e questo per Žižek sarebbe “obscenity”. Dunque, la sola alternativa è quella di liberare il campo dai consolidati gruppi di potere e segnare una pagina di vera svolta segnata dal diritto di autodeterminazione dei popoli.


L’intervento si chiude con un duro giudizio sui sedicenti paladini della democrazia, veri campioni di ipocrisia: “they publicly supported democracy, and now, when the people revolt against the tyrants on behalf of secular freedom and justice, not on behalf of religion, they are all deeply concerned”. E da buon provocatore comunista, come si definisce, cita Mao: Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente.

martedì 1 febbraio 2011

THE JASMINE REVOLUTION

LA RIVOLUZIONE ARABA
GENNAIO 2011

Tahrir Square, Il Cairo, 1 febbraio 2011 Foto Ass.Pr.
La rivoluzione dei gelsomini, così è stata ribattezzata la ventata di proteste che ha spodestato Ben Ali in Tunisia e che sta defenestrando Mubarak in Egitto. La sponda Sud del Mediterraneo sta vivendo un inverno ‘radioso’. Autocrati considerati moderati e per questo supportati dall’Occidente stanno dimostrandosi disarmati di fronte alle masse di giovani che insorgono. E l’Occidente balbetta e appare impotente rispetto ai primi grandi sconvolgimenti popolari dai tempi della Glasnost.



Le folle che fanno muro, foreste di braccia che avanzano, la forza del coraggio che magari produce decine di martiri ma che dà una speranza di libertà a milioni di persone. Tutto questo è esaltante ma anche inquieta, mette brividi sulla schiena a pensare come situazioni consolidate quali regimi, nazioni, scenari globali, all’apparenza inamovibili ed inespugnabili, possano essere messe in crisi in un giro di valzer e innescare crolli a catena e cambiare le prospettive del pianeta. Perché dopo Tunisi e Il Cairo ci potrebbe essere la volta di Algeri, del Marocco, dello Yemen, magari di Teheran.


La rivoluzione dei social network che creano bisogno di libertà; la rivoluzione che fonda le basi nella demografia, in paesi in cui la metà della popolazione ha meno di venti anni; la rivoluzione della fame causata dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.


I milioni di egiziani per le strade fanno anche paura. L’Egitto è il paese cardine del mondo arabo, il punto d’incontro tra il Magrheb e il Mashriq, le due anime geografiche della nazione araba. In Egitto si è sviluppato il nazionalismo laico di Nasser che guardava al comunismo sovietico e il nazionalismo laico di Sadat che guardava all’America. Primo paese arabo a riconoscere Israele ma anche patria di Sayyd Qutb, il padre dell’integralismo islamico, condannato a morte dagli egiziani ed impiccato per aver pubblicato quel ‘All’ombra del Corano’ che ha infiammato generazioni di islamisti.


Se crolla il regime di Mubarak sotto la spinta popolare può accadere di tutto e Mubarak, proprio in questi minuti del primo febbraio del 2011, sta crollando.