cinema

domenica 23 gennaio 2011

CLINT EASTWOOD

HEREAFTER
CLINT EASTWOOD - 2010


Il titolo è forse fuorviante: più che un film sull’aldilà e sulla morte Hereafter è un film sull’aldiquà e sulla vita. Seguiamo le sorti convergenti di tre personaggi, una donna, un uomo, un bambino che da luoghi molto distanti giungeranno ad incrociarsi e a influenzare reciprocamente i loro destini di perfetti sconosciuti. Non è tanto la morte che accomuna Marie, George e Marcus quanto la solitudine e il loro sentirsi traditi dalle persone più vicine. Marie è una giornalista di successo, ascoltata e considerata nell’ambiente di lavoro, che andrà incontro a delusioni professionali ed affettive che la porteranno ad affrontare da sola nuove scelte di vita. George è profondamente solo con la sua facoltà di vedere oltre la vita che gli fa fallire possibili relazioni sentimentali e che lo porta ad incomprensioni con il fratello. Infine Marcus, per il quale la solitudine prima condivisa con il gemello Jason diventerà una solitudine assoluta e disperata.


Il film si divide in due parti, quella dei destini paralleli e il finale con i destini incrociati e qui sorge un interrogativo: cos’è che fa incontrare i tre protagonisti che vivono a Parigi, a Londra, in California? La ‘luccicanza’, forse? O l’intervento di un angelo custode? Magari il comune contatto con la morte? Ma chi non ha avuto un contatto con la morte? In un film basato sui fenomeni paranormali è forse fuori luogo porsi troppe domande. Meglio analizzare le scelte tecniche del regista. Per trattare una materia così eterea Eastwood sceglie un registro basato sui ‘tempi medi’ realistici (né dilatati o lenti né frenetici o veloci). Il tempo di ripresa è esplicitante, ci mostra con chiarezza tutto quello che ci deve mostrare. In questa durata di svolgimento molto razionale, il tema narrato è invece antirealistico, irrazionale. Questa antitesi tra forma e contenuto suscita qualche riserva, specie dopo le due bellissime scene, quella dello tsunami, in cui la catastrofe è ripresa con il tempo medio e ponderato carico di tensione; quella dell’incidente, episodio di sapiente realismo emozionante pienamente in linea con la poetica di Dickens, e lo scrittore inglese è il quarto protagonista del film.


In particolare è una certa forzatura nel dipanarsi delle storie verso il finale che lascia un senso di perplessità, subito fugato dall’impressione indelebile che lasciano alcuni episodi del film che confermano, ancora una volta, il livello espressivo raggiunto dal regista.

sabato 22 gennaio 2011

AYN RAND

LA RIVOLTA DI ATLANTE
AYN RAND - 1957


La rivolta di Atlante è uno di quei romanzi che iniziano quando si giunge alla fine della lettura. Almeno nel mondo anglosassone e soprattutto negli Stati Uniti. La fama e il mito infatti si perpetuano in centinaia di gruppi di fans che proseguono le vicende dei caratteri principali, ma anche secondari, in giochi di ruolo, gruppi online e offline. Il successo del romanzone (più di 1000 pagine) di Ayn Rand può essere paragonato a fenomeni come Star Trek o, per citare un caso più recente, Lost.



Giungere all’ultima parola del libro è effettivamente impegnativo (letto in lingua originale nell’edizione Penguin 1999). Se la prima parte affascina, cattura e fa restare incollati alla pagina, nella seconda parte la tensione si allenta, non tanto per la suspence e la voglia di sapere come si scioglieranno i vari intrecci messi in campo(l’interesse resta alto) ma perché i caratteri si irrigidiscono, assumono una monodimensionalità bianco o nero, superuomo o squallida nullità, che non regge alla lunga distanza. Ma è nella terza parte che il romanzo naufraga e falliscono le velleità di realizzare un capolavoro letterario. Atlas involve in quello che è, un fumettone fantascientifico con aspirazioni filosofiche e politico-economiche.
Nell’ultima parte infatti i nostri eroi diventano una sorta di Fantastici Quattro e finiscono nella verde valle a coltivare il loro orticino, (Voltaire?) dopo aver sconvolto il mondo.


Restano però momenti che giustificano il successo del romanzo. L’ambientazione è quella da vigilia di caduta dell’Impero –americano in questo caso. New York come la Los Angeles del 2019, fa freddo, piove, smog e caligine rigano vetri e sporcano le strade mentre crollano ponti esplodono tunnel deragliano treni affondano navi. L’Apocalisse, insomma. Le élites politiche con i vari intrallazzi con le lobbies economiche sono arroccate nelle loro cittadelle mentre fuori i supereroi paladini della libertà danno la vita per affermare la forza dell’individuo al di fuori delle avidità di burocrati senza merito. Capitalisti anarco-individualisti, algide amazzoni disinibite, terroristi libertari che rubano allo stato per risarcire gli imprenditori proprio perché isolati e anticomunitari seminano il panico tra le nomenclature pubbliche, salvo poi seguire un leader e escludersi in una propria comunità ‘extra-mondo’.


La figura femminile che attraversa l’intero intreccio narrativo, Dagny Taggart, è una spregiudicata imprenditrice che ignora le forme della moralità dominante e propone uno stile di comportamento completamente libero dagli schematismi imposti dalla società. Con le azioni Dagny afferma la sua appartenenza di genere, non per questo la sua inferiorità rispetto al maschilismo dominante, anche grazie ad un comportamento affettivo e sessuale privo di convenzionalità. Siamo di fronte alla Greta Garbo di Ninotchka con la resistenza superumana di Lara Croft.


Gli spunti sarebbero moltissimi come i livelli di lettura. Ayn Rand si è impegnata a fondo per sistemare in forma di novel una visione del mondo, appesantendo la lettura. Se si fosse mantenuta sul livello di pura fiction, sfrondando di due terzi il romanzo, avrebbe realizzato un vero capolavoro di narrativa Sci-Fi. Ma il suo intento era un altro e quindi così lo accogliamo. Una definizione sintetica: illuminismo nitchiano positivista con culto dell’individualismo anticomunista il tutto avvolto in ambiente di futurismo espressionista art déco (vedi copertina, molto significativa).


Infine quello che è il vero motto del libro:


We seek the achievement of (individual, aggiungerei) happiness che forse a qualcuno ricorderà qualcosa…

lunedì 17 gennaio 2011

ROAD MOVIE COL MORTO

DAYTON & FARIS / WALD / RIKLIS




Quasi un nuovo genere cinematografico, i due tratti che lo identificano sono il viaggio e la salma, il road movie col morto è il denominatore comune di tre film più o meno recenti. I film sono: Little Miss Sunshine, 2006, USA, di J. Dayton e V. Faris; Simon Konianski, 2009, Belgio, Fra, Can, di M. Wald; Il responsabile delle risorse umane, 2010, Israele, Ger, Fra, di E. Riklis.



ANALOGIE

Viaggio, Destinazione

Parte della storia si svolge su strada, vecchio espediente che risale agli albori della narrativa. Innumerevoli i ‘viaggi’, i cammini, i percorsi, che permettono al protagonista di accumulare esperienze che avranno conseguenze più o meno decisive per la propria visione del mondo o comunque degne di essere raccontate.


Mezzo

I mezzi di trasporto utilizzati nei tre film non danno certo sicurezza. Appena compaiono sullo schermo lo spettatore sa già che creeranno qualche problema. Cosa che puntualmente accade.


Il morto, la salma


Il mezzo di trasporto diventa carro funebre, non previsto in Little Miss Sunshine, negli altri due film invece la destinazione del viaggio è proprio un cimitero e per entrambi nell’Est europeo post comunista e qui come non pensare al bel romanzo di Jonathan Safran Foer (sembra proprio che dopo il crollo del muro per molti ebrei sia diventato quasi un topos la ricerca delle proprie origini nelle pianure dell’Europa orientale).


Vicende familiari


Famiglie in crisi, rapporti in crisi. Più tradizionale la crisi matrimoniale nei due film ‘europei’, con la separazione della coppia, sulla quale l’esperienza filmica produrrà ripercussioni. Nel film americano la coppia vive il matrimonio senza slanci né emozioni che il narrato filmico non mancherà di offrire, rivitalizzando gli sposi. C’è però una separazione, quella che ha appena vissuto lo zio, compagno di viaggio abbandonato, depresso, a rischio suicidio. Anche per lui il viaggio porterà nuovi stimoli vitali.


Figli


In primissimo piano in LMS e in SK, la figlia è presente ma più periferica nel film israeliano. In tutti e tre è comunque fondamentale il rapporto con i figli.




I DISTINGUO
Il più riuscito è senza dubbio LMS. L’ironia è presente ma non voluta a tutti i costi come in SK e per questo è più intelligente e diventa irresistibile comicità nella sarabanda finale con funzione di accusa di costume così ben gestita che il film americano risulta essere una delle migliori realizzazioni degli ultimi anni.
SK è un film di regia. Si sente l’impegno di Wald a girare per bene, con una certa originalità di ripresa (gustosa la figurazione dell’accoppiamento della moglie con il muovo compagno). I riferimenti alla cultura e ai luoghi comuni dell’ebraismo vengono sottolineati ricorrendo all’antitesi grottesca troppo cerebrale e senza il piglio fluido della genialità.
Il responsabile delle risorse umane è il più debole dei tre. La regia è piatta e forse pesa la trasposizione da uno scrittore importante come Yehoshua. Molto bravo l’attore protagonista ma il film resta come schiacciato dal registro di tragedia nonostante il tentativo di ribaltare il tono con trovate marginali incongrue o paradossali, come l’uso di un mezzo da guerra di epoca comunista per trasportare la bara, con tanto di bandierina. Spesso si scivola nel patetico e si versano troppe lacrime.



giovedì 13 gennaio 2011

PSICOANALISI DEL CINEMA

THE PERVERT’S GUIDE TO CINEMA
SOPHIE FIENNES / SLAVOJ ŽIŽEK – 2006



Melanie in barca a Bodega Bay sta giungendo all’attracco dove l’attende Mitch per presentarla alla madre. Macchina da presa in piano americano su Melanie che controlla il motore della piccola imbarcazione, abbigliamento informalmente sofisticato, acconciatura e trucco perfetti. Alle sue spalle un giorno sereno, col sole che si riflette sulle acque della baia e indora le colline. La macchina da presa su ferma su Melanie poi stacco sull’approdo in soggettiva: anche noi vediamo, dal punto di vista di Melanie, Mitch che sul molo si prepara ad accoglierla. Ancora volto di Melanie che contempla il suo uomo e quasi ne gusta anticipatamente l’abbraccio. Il desiderio è reso oltre che dallo sguardo, da un leggero movimento della testa di Melanie. Proprio in coincidenza con la resa cinematografica dell’impulso sessuale, improvviso un uccello l’attacca, le scompiglia i capelli, la ferisce con gli artigli. Melanie, sconvolta, porta la mano guantata alla testa. Primo piano del guanto macchiato di sangue, il sangue del peccato.


Žižek entra nella scena di Uccelli e nella stessa posizione di Melanie a Bodega Bay interpreta i risvolti psicoanalitici della sequenza. Visione/Proiezione, Finzione/Realtà, Desiderio/Inibizione sono alcune delle polarità sulle quali si sofferma il filosofo e psicoanalista sloveno. Il linguaggio è freudiano, si parla dei tre livelli della narrazione coincidenti con io, ego e super ego e lo si applica a scene chiave di alcuni capolavori cinematografici. Da Hitchcock a Lang, da La conversazione di Coppola a Matrix, da Solaris ai fratelli Marx, a Chaplin a Kubrick a Fight Club. Žižek, molto comunicativo, parla un linguaggio tecnico ma comprensibile nel suo chiaro inglese. La regia della Fiennes è cinematografica più che documentaristica. Analisi ed esempio si succedono a ritmo serrato e si vorrebbe che continuassero all’infinito.


Accolto con unanime consenso dalla critica internazionale, The pervert’s guide to cinema è assolutamente imperdibile per ogni amante del cinema.



lunedì 10 gennaio 2011

JOHN LE CARRE'

IL NOSTRO TRADITORE TIPO
JOHN LE CARRE' - 2010



L’ultimo romanzo di John Le Carré non è un romanzo memorabile. Contrariamente al giudizio di un lettore eccellente come Goffredo Fofi, Il nostro traditore tipo, accanto a pregi indiscutibili presenta anche clamorose debolezze, come non ha mancato di notare la critica britannica.

Va subito detto che Le Carré è uno dei grandi della letteratura inglese contemporanea. Suo il merito, assieme a Graham Greene e Somerset Maugham, di aver elevato la spy story ad un livello qualitativo che prescinde dal genere. La spia che venne dal freddo e La talpa sono infatti due capolavori narrativi che colgono lo spirito di un’epoca, quello della Guerra Fredda, come pochi altri.
Dopo la caduta del Muro Le Carré si è trovato spiazzato, come affermano anche i personaggi di questo suo ultimo romanzo. Per tornare alla vita ci voleva l’11 settembre ma per le spie il decennio 1991-2001 ha significato una parentesi dolorosa in cui far fronte a ridimensionamenti e crisi di identità.
Oggi sono la lotta al terrorismo islamico, il riciclaggio di denaro sporco delle nuove mafie, la Russia di Putin e i bail-out sulla piazza finanziaria londinese a fare da cornice agli intrighi globali di Le Carré, il quale cerca di dare una veste politico-filosofica all’intreccio, puntando sulla caratterizzazione psicologica dei vari personaggi.
E qui casca l’asino. Il tentativo di costruire due figure alternative, fuori dal solito reticolato burocrati-politici-agenti-criminali non riesce. La bella coppia (insegnante idealista lui-affascinante avvocato in carriera lei) coinvolta nel giro grosso fa troppo coniugi Hart di Cuore e batticuore. Quello che doveva essere la trovata giusta e il filo conduttore della narrazione è anche il punto debole del romanzo, il quale dà l’impressione che tutto rimanga in superficie, poco Le Carré, insomma.
Dove invece affiora la stoffa del grande romanziere è lo scontro tra i due ‘vecchi’ dell’intelligence, sopravvissuti, guarda caso, alla Guerra Fredda. Il duro confronto verbale tra il funzionario organico e il libero battitore vale la lettura. Ma lascia anche la sensazione che fuori da quel particolare momento storico vissuto in prima persona, Le Carré fatichi a raggiungere livelli che s’innalzino oltre lo standard qualitativo del best seller internazionale. No, Il nostro traditore tipo non è un romanzo memorabile. Memorabili alcune battute come le seguenti


«Non siete forse gentiluomini che mentono per il bene del paese?»
«Quelli sono i diplomatici. Noi non siamo gentiluomini.»
«Allora mentite per salvare la pelle.»
«Quelli sono i politici. Tutta un’altra storia.»


Oppure


«In fin dei conti, che male c’è a ripulire denaro sporco? I bilanci di alcuni paesi si basano più sul denaro sporco che su quello pulito. E allora, dove preferiresti veder circolare quel denaro? In quei paesi, come soldi sporchi? O qui a Londra, puliti, in mano a uomini civili, da impiegare per fini leciti e per il bene pubblico? »
«Allora dovresti cominciare a riciclare anche tu. Per il bene pubblico»

venerdì 7 gennaio 2011

DYLAN THOMAS / JOHN CALE

A CHILD'S CHRISTMAS IN WALES



La poesia di Dylan Thomas è un tronco di vite, nodoso, fibroso, articolato. Si torce, si ingrossa, si snellisce e lancia virgulti teneri che dal verde brillante vireranno, in successive gradazioni, all’oro carico al rubino acceso al terra di Siena bruciato. E tra il fogliame folto le gemme lucide, piene di sapida consistenza.



Siano l’oggettivazione di un disagio esistenziale o la rielaborazione del vissuto infantile, i vert paradis enfantines, per citare Baudelaire, le composizioni di Thomas procedono per emanazioni successive, associazioni sinaptiche che approdano all’immagine capace di suggellare l’intero processo associativo e fissarlo in un’esplosione concentrata di lirismo.
In A Child’s Christmas in Wales Dylan Thomas rovescia sulla pagina un grumo emotivo fatto di rielaborazione nostalgica e gioiosa nella quale si accumulano contiguità immaginative del passato affinate dall’esperienza poetica che separa i due momenti testuali:
l’episodio di un natale, quel natale, solo e unico ma che diventa Il Natale;
il momento della scrittura, in cui il ricordo dalle viscere impalpabili del poeta si coagula nel segno concreto della comunicazione.


Nella prosa lirica di A Child’s Christmas in Wales c’è tutta la poetica di Dylan Thomas, quasi un Fern Hill espanso e concentrato allo stesso tempo, dove il verde e l’oro dell’estate sono sostituiti dal bianco accecante dell’inverno.


Child’s Christmas in Wales è anche il titolo di una canzone di John Cale, contenuta nell’album Paris 1919 del 1973. Anch’egli gallese, nella canzone prova a cimentarsi con il linguaggio thomasiano rievocando l’infanzia e l’eccitazione di un momento di festa.


Il vischio, le arance che sanguinano, le candele e i canti religiosi si mescolano ad esplicite citazioni come quel long legged bait/esca dalle lunghe gambe che avrebbe ripreso anche De André in Dolce luna. Cale ha sempre avuto uno stretto legame con Thomas, molto presente in diverse sue canzoni, alcune delle quali sono poesie di Dylan Thomas musicate, come, per citare solo un esempio, la bellissima Do not go gentle into that good night.

Lou Reed e John Cale, intorno al 1966

mercoledì 5 gennaio 2011

ROBERT WYATT

GEMME SPARSE



 Quasi mezzo secolo in musica per Robert Wyatt, innumerevoli i momenti importanti della sua carriera. Qui verranno scattate solo alcune istantanee ritenute significative anche secondo un criterio personalmente emotivo e non puramente artistico.


Si parte dal 1970, l’anno del doppio album Third dei Soft Machine. Quattro pezzi, uno per facciata. I 20 minuti della terza sono quelli di Moon in June, composta da Wyatt. L’ultima ‘canzone’ con testo registrata dai SM, verrà ripresa nelle Peel Sessions per la BBC con variazioni nel testo. Robert fa tutto, o quasi, da solo, in un anticipo della carriera solista che sarebbe iniziata da lì a qualche mese. Poco jazz rispetto al resto del disco, Moon in June è un’azione sonora liberatoria, lo sfogo impressionistico di chi si scatena in un’estasi assoluta. Percussioni, tastiere, cantato dipingono melodie che si rincorrono, si sovrappongono ed esplodono in un affresco emozionato ed emozionante. S’intravede Rock bottom, ma questo lo possiamo dire post factum.


Nei primi Ottanta s’infittiscono le collaborazioni di Robert Wyatt con esponenti della new wave inglese, Costello o Scritti Politti, per citare due nomi, e nel 1982 esce un EP con Ben Watt, un oscuro cantante e musicista che aveva realizzato un solo album minimalista e introspettivo, North Marine Drive. Summer into winter contiene cinque brevi composizioni per chitarra (Watt) piano (Wyatt) e voce. Bella intesa, musica di sentimenti semplici, un giardino inglese a due passi dal mare che cambia toni con il mutare delle stagioni. I suoni sono atmosferici, seguono le perturbazioni e si interiorizzano.


All’inizio del nuovo millennio Robert Wyatt si affianca ad una allora quasi esordiente Cristina Donà e come special guest offre il suo supporto per quello che ad oggi risulta essere il brano più bello della cantante lombarda, Goccia. Robert suona la cornetta, canta ed emette suoni vari con la voce. Goccia ha un ritmo di marcia ma è al tempo stesso sospesa e poetica con un testo particolarmente suggestivo. Tu sei una goccia che non cade e ritarda la mia solitudine come un’ultima frase da terminare. Fa una strana impressione ma anche un grande piacere ascoltare il controcanto di Wyatt in italiano, lingua che tornerà in Comicopera.


Giungiamo al 2008 e, inattesa, Wyatt ci regala un’altra sorpresa. Risale a quell’anno infatti l’uscita di Mr Love&Justice di un Billy Bragg tornato in ottima forma. Tra i brani migliori del disco c’è sicuramente I keep faith, e nel coro del refrain ecco inconfondibile la voce di Wyatt. La coppia è perfetta, due eroi della working class inglese ma non solo, che cantano insieme I keep faith in you. Come non dare loro ragione.



lunedì 3 gennaio 2011

ALAN BENNETT

UNA VISITA GUIDATA
SE IL BUONGIORNO SI VEDE DAL MATTINO…

Thomas Gainsborouh, Mr e Mrs Andrews, 1748


Seguire Alan Bennett a fare due passi tra le stanze della National Gallery è stato uno di quei piaceri che riconciliano con il mondo e con la vita. Il modo migliore per iniziare un nuovo anno.

Going to the Pictures (in italiano Una visita guidata, Edizioni Adelphi, 2008) è una passeggiata tra i capolavori della galleria londinese con una guida d’eccezione. L’autore è infatti dal 1993 trustee della National e conosce bene le opere della collezione e, anche se non lo vuole ammettere, la storia dell’arte tout court. E qui sta il bello. Bennett fa di tutto per non ammetterlo. Svolazza da Caravaggio a Piero della Francesca, da Tiziano a Gainsborough con la leggerezza fatua di una vanessa. Parla d’altro, Bennett: ricordi d’infanzia, dell’Inghilterra del dopoguerra, di cinema e televisione, qualche pettegolezzo e intanto ci trasmette l’essenza del capolavoro davanti al quale ci siamo soffermati. L’opera d’arte scende dalla cornice e si apre alla nostra visione secondo ottiche particolari, asimmetriche, marginali, che sfuggono allo sguardo meno attento. E tra una parola e l’altra, si alternano facezie e umorismo inglese, confessioni di debolezze intime e affermazioni di importanza capitale come il ruolo dell’arte nella società attuale o la miopia delle politiche culturali governative.

La visita trascorre leggera e proficua grazie al copioso raccolto di impressioni e suggestioni che procura. I pregi di questo libriccino sono innumerevoli. Andando in dissolvenza: la brevità, l’ironia, l’assenza di pedanteria, così tipica di chi vuole spiegarci un’opera d’arte, la voglia di approfondire gli argomenti trattati, l’aspetto di consolare il lettore di fronte alla sua ignoranza….


Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1450. Particolare